Marco Missiroli ha realizzato un’intervista a Massimo Bottura per “Vanityfair” messa in rete (e presente in edicola fino al 16 marzo) che val la pena di proporre qui. Non solo perché in redazione, qui a grandichef.com, Massimo Bottura è un italiano che raccontiamo e di cui abbiamo grande stima e ammirazione. Ma anche perché l’intervista di Marco non è affatto di quelle banali giusto per parlare e riparlare di cibo, ricette ed altre cose consuete al mondo dell’alta enogastronomia italiana in un momento in cui nulla nel mondo del cibo va’ come dovrebbe andare. I ristoranti sono chiusi di sera da mesi. Gli chef sono costretti a non poter lavorare. Intanto il mondo cerca di reagire e di superare la pandemia. Ma intanto…
«Dio creò Massimo Bottura. Gli diede – scrive Mario Missiroli – un destino da chef, l’ossessione per la musica e l’arte contemporanea, le New Balance ai piedi. Lo spedì a Modena. Aggiunse un dettaglio che avrebbe fatto il tutto: l’arte di sbagliare. Perché c’è un tempo che il cuoco migliore del mondo sa vivere più del momento della cucina, ed è l’imprevisto del fallimento. L’errore, l’inciampo, sentirsi disorientato per un istante e l’istante successivo dire: «Ho sbagliato? Ma è fantastico!».
In 58 anni di vita e una carriera senza eguali, Bottura non ha mai smesso di cadere. E di far valere la caduta. Accadde all’inizio di questa pandemia, quando usò quel tempo di tenebra per ridare anima a un pezzo di campagna modenese ultimando Casa Maria Luigia, la sua guest house che è anche museo di arte e sentimento del vivere bene. Accadde anche quando il suo sous-chef fece cadere il loro dessert più prezioso: la crostatina al limone. Bottura la vide a terra, rotta, e si mise a urlare di gioia: è geniale, è straordinario, concependo uno dei suoi piatti più importanti, intitolato Ooops mi è caduta la crostatina. L’arte dell’errore, dunque. Il segreto di Bottura, che lo stesso cuoco ha raccontato in una serie televisiva prodotta da Michelle e Barack Obama, disponibile su Netflix dal 16 marzo. Si chiama Waffles + Mochi, dove Waffles e Mochi sono due pupazzi che si aggirano nel supermercato della ex First Lady e poi viaggiano per curiosare tra le cucine stellate e i misteri degli alimenti. Un’avventura dedicata all’alimentazione sana che ha la forza di parlare ai bambini (ma anche ai genitori), arrivando fino a Modena per spiare Bottura che tortella assieme al figlio Charlie. Qui Waffles e Mochi gli hanno fatto la domanda più intima che voglio ribadirgli: dunque sbagliare va bene, chef Bottura? «Lungo la strada della creatività c’è sempre un momento in cui inciampi e finisci giù. Finire giù può essere considerato un passo falso. Invece è un’occasione. Se inciampi, cadi a terra e da terra guardi il mondo da un altro punto di vista, magari dal punto di vista di un bambino che spia sua nonna mentre tira la pasta, tu riconcepisci il mondo. Da terra tu sei l’idea. Tu sei l’altra prospettiva. Il peccato madornale sai quale sarebbe? Cadere e imprecare, poi tornare nella quotidianità senza un cambiamento, una rottura».
Le interessa lo squarcio del quotidiano. È Pirandello.
«Mi interessa ribaltare l’avversità e vederci il nuovo. Con la crostatina ho catturato quel flash. Che è un po’ la missione all’Osteria Francescana: abbiamo ragazzi di 20, 25, 30 anni che arrivano da ovunque, una biodiversità culturale da esaltare anche nell’imprevisto. Vanno lasciati esprimere. Se li metti malamente sotto pressione solo perché hanno sbagliato, non andranno mai alla scoperta».
Trasmette questa visione anche ai suoi figli?
«Cerco di farlo con chiunque abbia il futuro dalla sua parte. Nel mio futuro c’è sempre il futuro. È fondamentale riuscire a essere a fianco di chi crescerà trasmettendogli verità che rimarrebbero sottotraccia, mostrando il territorio in cui vivono, sapendo per esempio che ogni mattina il latte crudo si trasforma in Parmigiano Reggiano attraverso il sapere di secoli. Che l’uva può essere pigiata, bollita lentamente, sobbollita e dar forma a un mosto che diventa aceto balsamico dopo venticinque anni. Mia figlia ventiquattrenne non ha ancora assaggiato il suo aceto balsamico che è stato preparato quando è nata. E quando lo farà, proverà qualcosa che avevamo pensato per lei un quarto di secolo fa immaginando un’epoca lontana».
È lo stesso sentimento di salvaguardia dell’avvenire che muove Waffles + Mochi.
«Per questo ho accettato di partecipare a due puntate della serie tv. Conoscendo Michelle e Barack Obama sapevo che potevo contare su di loro. Barack è una persona dalla profondità incredibile. Stava cercando di cambiare il sistema sanitario americano, per me una delle rivoluzioni di cui avrebbero avuto bisogno gli Stati Uniti. Ma soprattutto c’è la questione del climate change: mi invitò in California a un summit di persone con la sua stessa visione, consapevole del fatto che uno dei grandi problemi legato al climate change è lo spreco alimentare».
E Michelle?
«E Michelle, con tutto quello che ha fatto alla Casa Bianca con l’orto e l’healthy food. Ha sensibilizzato l’opinione pubblica sull’alimentazione disastrosa nel Sud degli Stati Uniti. Sa ascoltarsi ed ascoltare. L’importante è ascoltarsi, capire la prospettiva e collaborare con persone che la vedono come te. Così si condividono le energie, che poi è quello che ho assorbito dalla mia famiglia».
Che genere di famiglia era?
«Una famiglia larga, con cinque fratelli e sorelle, tre zii, due nonni, morosi e morose, amici sempre a tavola. Marco Bizzarri, presidente di Gucci, chiamava mia mamma dal banco di scuola a ricreazione al Barozzi – siamo stati compagni di banco alle scuole superiori – e le diceva: “Luisa, vengo a pranzo oggi, cosa mi fai?”. “Ah Marco, faccio il fritto misto!”. “Ma i passatelli?”. “Va bene dai, facciamo i passatelli”. Questa energia, questa visione femminile».
La visione femminile a cui deve tutto.
«Le donne sono le persone che più hanno condizionato la mia vita. Prima mia nonna, quando mi ha convinto a smettere di giocare a calcio perché mi distraevo dallo studio. Poi mia mamma, che durante i primi anni di Giurisprudenza mi guardò in faccia una mattina e mi disse: “Massimo, non sei felice. Tu sei uno che ha tante energie, devi incanalarle in qualcosa di positivo. Se tu pensi che essere un avvocato non sia la cosa giusta, cerca qualcosa di diverso”».
Dall’altra parte c’era suo padre che la voleva avvocato.
«Sì, ma io mollai Giurisprudenza. E poi, nei momenti difficili, non ho mai ceduto proprio perché dovevo dimostrargli che aveva ragione mia mamma e non lui».
Sua madre. Prima ancora sua nonna. E dopo?
«Lidia Cristoni, la cuoca che mi affiancò nel momento in cui decisi di essere un ristoratore. Questa signora, praticamente cieca, licenziata da un ristorante modenese, attraversava la campagna tutti i giorni per venire a cucinare al Campazzo di Nonantola, la mia prima osteria. Aveva saputo da un vicino del cambio di gestione e così era venuta a raccontarmi la sua storia. Io l’ho guardata e le ho detto: “Senta signora Lidia, si metta un grembiule e mi faccia vedere cosa sa fare”. È entrata in cucina e non è più uscita».
E dopo la signora Lidia?
«Mia moglie. Lara mi ha aperto la porta dell’inaspettato e dell’arte contemporanea. Mi ha insegnato ad andare nel profondo dei concetti. Che è una forma unica di amore. Insegnare a scavarsi, e scavare nella realtà. Insegnare a essere ispirato dagli altri. Diceva Picasso: il mio è un lavoro dove il 10 per cento è talento, il 90 per cento è duro lavoro e sguardo su ciò che mi circonda».
Picasso ha anche detto: «A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino». E qui torniamo alla capacità di accogliere l’inaspettato con una purezza, sempre legata alla proprie radici.
«Devi guardare il tuo passato in una chiave critica e mai nostalgica, portandolo nel futuro. Dopo che al Campazzo di Nonantola non riuscivo ad andare oltre, ho avuto bisogno di approfondire la tecnica. Ho bussato alla porta di Georges Cogny alla Locanda Cantoniera, a Piacenza. E l’ho fatto ogni fine settimana per due anni interi, di sera, dopo aver chiuso il Campazzo. Avevo fame di imparare. Andavo da Georges ad assorbire tutta la tecnica classica francese, che avrei applicato alla tradizione emiliana. E poi Alain Ducasse, Ferran Adrià, il periodo di New York. E con ciascuno: mettersi in gioco».
Trapela anche questo in Waffle + Mochi: mettersi in gioco. E giocare, nel senso preciso del termine. In Bottura non si estingue mai quest’anima bambina.
«Mia madre diceva che da piccolo ero un tornado. Sempre in movimento, sempre curioso. Indoli che sono confluite nell’interesse più grande della mia vita: l’emozione. Ascoltare Billie Holiday che canta e stona la sua vita è ciò che mi emoziona perché io sento che la sera prima ha vissuto quello che ha cantato il giorno dopo. Se Bob Dylan stona che differenza mi fa? Io voglio sentire quello che sta raccontandomi cantando, la sua poesia».
L’imperfezione che rende unico.
«Certo, l’imperfezione che mi sta rendendo visibile l’invisibile. Queste sono le cose fondamentali di cui sono eternamente affamato».
E questa fame eterna come ha reagito a pandemia e lockdown?
«Durante la prima chiusura mi sono detto: ecco un tempo per dedicarmi a qualcosa di nuovo. Ma la scintilla è venuta da mia figlia Alexa che durante un aperitivo virtuale con amici è arrivata in cucina con il telefono e ha cominciato a filmarmi con tutti che mi facevano domande. Poi l’ha messa lì: “Sai papà che rifarlo potrebbe essere interessante?”. Il giorno dopo ci siamo collegati con Instagram Live e abbiamo dato vita a Kitchen Quarantine. Il vero contributo l’hanno dato Alexa e mia moglie, e ovviamente mio figlio Charlie nel suo pigiama, un ragazzo diversamente abile con la differente abilità del sorriso e di rompere i coglioni a me, stuzzicandomi con la sua energia. Successo pazzesco. Risultato: vinciamo un Webby Award, nessuno ci poteva credere».
C’era anche la sua amata musica in Kitchen Quarantine?
«La primissima cosa che ho fatto all’inizio del lockdown è stato sistemare in ordine alfabetico i miei ventimila vinili. A un certo punto mi è capitato per le mani Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles: l’ho fotografato e l’ho mandato alla mia brigata chiedendo di trasformarlo in bocconi masticabili. Sono venute fuori
ricette che preparavamo per gli ospedali, per i medici e i volontari. Poi il 2 giugno abbiamo riaperto l’Osteria Francescana con un menu completamente nuovo, evocato anche da quell’esperienza».
L’evoluzione che viene da una caduta, di nuovo.
«È davvero il punto cruciale: capire cosa ci sta accadendo ed essere parte attiva di una rivoluzione, soprattutto sociale. È questo sguardo che vorrei lasciare ai miei figli e a chi viene a vivere la mia cucina. Dare la possibilità a tutti di accedere a un nuovo modo di vedere le cose. E di accoglierne la bellezza».